I fatti oggetto dei giudizi di merito, dotati di una certa risonanza anche mediatica, sono principalmente legati alla vicenda di Francesco Mastrogiovanni. Questi era stato ricoverato il 31 luglio 2009 presso l’ospedale di Vallo della Lucania, in esecuzione di un trattamento sanitario obbligatorio disposto per lo stato di «agitazione psicomotoria, alterazione comportamentale ed etero aggressiva» riscontrato il giorno precedente – quando Mastrogiovanni, colto ad attraversare in auto ad alta velocità un centro abitato, dopo una pericolosa fuga si era infine tuffato in mare per sottrarsi all’inseguimento delle forze dell’ordine.
Poco dopo l’ammissione nel reparto di psichiatria gli erano state applicate ai quattro arti apposite fascette dotate di viti, fissate alle sbarre del letto. Secondo quanto emergeva dai filmati registrati dalle telecamere di sorveglianza, il paziente era rimasto immobilizzato continuativamente, con l’eccezione di pochi minuti, fino al 4 agosto, data del decesso. Venivano quindi formulati a carico del primario, nonché dei medici e degli infermieri che si erano succeduti in reparto durante i turni di quei giorni, i seguenti capi di imputazione: oltre al sequestro di persona, il delitto di cui all’art. 586 in relazione all’art. 605 e – per i soli medici – il falso ideologico in atto pubblico, contestato per la mancata annotazione in cartella clinica dell’applicazione del regime contenitivo. La visione dei filmati portava peraltro a muovere l’addebito di sequestro di persona anche per la condotta tenuta da alcuni degli stessi sanitari nei confronti di un altro paziente, Giuseppe Mancoletti, che, dopo aver chiesto il ricovero volontario, aveva sviluppato uno stato febbrile, in concomitanza del quale era stato sottoposto a contenzione protrattasi per quasi un’intera giornata. Il Tribunale di Vallo della Lucania riteneva responsabili i medici per le diverse imputazioni, mentre assolveva gli infermieri per i reati di cui agli artt. 605 e 586, giudicando operante la scriminante dell’errore su un ordine illegittimo ex art. 51 comma 3, in conseguenza del loro ruolo subordinato[1]. La condanna dei medici veniva confermata dalla Corte d’Appello sul condiviso rilievo, rispetto al delitto di cui all’art. 605 c.p., dell’assenza dei presupposti di alcuna causa di giustificazione, e in particolare delle condizioni previste dall’art. 54 c.p.; era invece riformata la pronuncia di primo grado con riguardo alla posizione degli infermieri, la cui responsabilità veniva fatta discendere da una complessiva rilettura dei loro doveri professionali e dei rapporti funzionali con il personale medico. Con i ricorsi per cassazione gli imputati censuravano tutte le statuizioni della decisione di secondo grado, deducendo – per quanto qui più rileva – la mancanza di antigiuridicità delle condotte integranti il sequestro di persona e, comunque, la carenza dell’elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice. La Cassazione procede alla ricostruzione della principale questione giuridica – i presupposti di liceità della contenzione – affrontando anzitutto il problema della natura di tale pratica, per escludere che possa ricondursi alla categoria degli “atti medici” (pp. 44-45). Si tratta di una verifica imposta, come osservato dalla Corte, dai principi enunciati dalla nota pronuncia Giulini delle Sezioni unite del 2008, secondo la quale in presenza di tale qualificazione – dipendente dalla oggettiva finalità terapeutica, diagnostica o quantomeno palliativa dell’atto considerato – la condotta del sanitario beneficerebbe di una causa di giustificazione avente diretto fondamento negli artt. 2 e 32 Cost. Nella contenzione, però, nonostante la provenienza soggettiva dal personale medico, non è possibile ravvisare «una finalità curativa, né [essa] produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente». Neppure, contrariamente alla prospettiva sostenuta in alcuni ricorsi, può sostenersene la liceità per il solo fatto che essa risulti strumentale rispetto all’esecuzione di atti medici propriamente detti, come la cura farmacologica. La funzione svolta, infatti, come ribadito più volte in motivazione, è quella di mero presidio «di tipo “cautelare”» che, per la intrinseca invasività della libertà individuale e dell’integrità fisica, richiede di cercare altrove i presupposti della sua legittimità. A tal proposito la Cassazione richiama una serie di dati normativi (pp. 46-47) da cui deve desumersi, per un verso, l’estraneità della contenzione allo strumentario delle pratiche mediche ordinarie, per l’altro, una serie di condizioni minime al cui rispetto ne deve essere subordinata la liceità. All’art. 60 del c.d. regolamento sui manicomi (risalente al 1909) sono succedute, in particolare, la legge sull’ordinamento penitenziario (l. 354/1975, di cui in particolare l’art. 41) e, pochi anni più tardi, la c.d. legge Basaglia (l. 180/1978), che nell’abrogare indirettamente la citata disposizione regolamentare ne ha comunque convalidato l’impianto ispiratore, contribuendo anzi a disegnare un sistema ancor più garantistico dei diritti del paziente psichiatrico, in contrapposizione al precedente modello custodialistico; un criterio interpretativo ancor più stringente discende poi dagli artt. 13 e 32 Cost.[3]. I parametri espressi dalle norme citate convergono quindi nel senso di far ritenere che la contenzione, come forma di coercizione fisica, risponda a una logica di extrema ratio: cosicché, anche nel contesto sanitario, può ammettersene l’uso soltanto in situazioni straordinarie e limitatamente al tempo necessario per fronteggiarle. Non persuade, invece, il richiamo dei ricorrenti all’art. 5 lett. e) Cedu, trattandosi di previsione non pertinente, in quanto la «detenzione regolare dell’alienato», dalla stessa legittimata, non copre le ipotesi di totale immobilizzazione della persona, per le quali semmai occorre valutare la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti stabilito dall’art. 3 della Convenzione. L’incompatibilità il principio sopra enucleato vale a confutare l’argomento, invero suggestivo, per cui la liceità della contenzione potrebbe discendere in via automatica dall’applicazione del consolidato orientamento giurisprudenziale che pone a carico dello psichiatra una posizione di garanzia di particolare latitudine, gravandolo tanto di obblighi di protezione che di controllo rispetto al paziente. Si è sostenuto infatti che l’obbligo del medico di impedire condotte auto ed etero-aggressive, considerato dall’angolo visuale dell’adempimento del dovere, consentirebbe di ritenere scriminati gli atti che egli compie per neutralizzare il rischio degli eventi che è tenuto a prevenire. Osserva tuttavia la Cassazione (p. 48) che, al contrario, per la natura dei beni in gioco, sono gli stessi obblighi di protezione (e, se del caso, di custodia) del medico a trovare un limite nella eccezionalità delle condizioni entro cui è lecito ricorrere alla contenzione. 6. L’istituto idoneo a convogliare sul piano tecnico tale esigenza di eccezionalità come filtro di liceità è, secondo la Cassazione, la causa di giustificazione dello stato di necessità. La sentenza provvede quindi a specificare, in relazione alle ipotesi di contenzione del paziente psichiatrico, alcuni dei presupposti di operatività dell’art. 54 c.p. (pp. 49-51): i) l’attualità del pericolo preclude un utilizzo della contenzione «in via “precauzionale”», dovendosi fondare su riscontri obiettivi – ricavati da un «costante monitoraggio del paziente» e da una valutazione completa dell’evoluzione del quadro clinico – idonei a far ritenere, secondo la scienza medica, quantomeno imminente un’offesa all’incolumità personale; ii) la proporzionalità della contenzione – una volta accertata l’inefficacia di misure alternative – deve intendersi sia in senso cronologico, da commisurarsi quindi alla durata del pericolo (o meglio, della sua attualità), sia in termini di intensità, dovendo il medico valutare la possibilità di immobilizzare solo alcuni arti. Una prima concretizzazione di questi parametri è offerta dall’applicazione che ne è stata fatta, nel caso di specie, dalla Corte di Appello, e che la Cassazione ritiene di dover condividere, tenuto conto anche dell’inammissibilità dei motivi tesi a sollecitare una diversa ricostruzione in fatto. Per quanto riguarda Mancoletti (pp. 51 ss.), l’insussistenza dei requisiti di cui all’art. 54 può cogliersi palesemente nella circostanza per cui, in base alle registrazioni video, egli non si era dimostrato aggressivo o irrequieto, e d’altra parte, secondo l’attendibile testimonianza dello stesso paziente, non aveva opposto alcun rifiuto alla terapia. Né – precisa la Cassazione – la guarigione dalla polmonite, avvenuta grazie ai farmaci lui somministrati durante il tempo in cui era rimasto immobilizzato a letto, sarebbe argomento sufficiente per invocare la liceità della condotta alla luce dei principi sanciti in Giulini, dovendosi ribadire che all’evidenza la contenzione (comunque superflua nel caso di specie) risulta di per sé priva di alcun effetto terapeutico. Gli estremi dello stato di necessità non sono integrati neppure nella più complessa vicenda che ha coinvolto Mastrogiovanni (pp. 54 ss.). Ciò vale sia per l’originaria applicazione dei dispositivi di contenzione, sia per il loro successivo mantenimento. Sul primo fronte, infatti, si ricava dal diario clinico che già poco dopo l’ammissione in reparto l’iniziale agitazione del paziente era stata efficacemente compensata per via farmacologica; totalmente avulsa dal contesto terapeutico risulta invece la finalità di eseguire un prelievo delle urine richiesto dalle forze dell’ordine per accertamenti legati alla guida spericolata del giorno precedente, trattandosi di una specifica esigenza investigativa che l’ordinamento non consente di soddisfare in via coattiva (salva ovviamente la rilevanza penale del rifiuto). Anche la successiva agitazione psicomotoria del paziente, poi, non consente di ritenere scriminato il protrarsi della contenzione quando, come nel caso di specie, sia possibile accertare – in base a una serie di riscontri quali il diario clinico, i filmati e i rilievi autoptici – che tale comportamento non è stato manifestazione del riacutizzarsi della patologia psichiatrica, ma deve viceversa ricondursi proprio «al perdurare della costrizione meccanica divenuta insopportabile, al caldo e all’insofferenza per la posizione innaturale in cui i legacci costringevano il malato, con il conseguente istintivo quanto inutile tentativo di forzarli per riacquistare la capacità di movimento» (p. 56). Un ulteriore corollario del principio di extrema ratio si trae quindi dall’affermazione per cui la contenzione non può ritenersi giustificata dal solo riferimento ai possibili effetti collaterali degli psicofarmaci (quali manifestazioni di aggressività o rischi di cadute da ipotensione), a prescindere da un pericolo attuale per l’incolumità personale da ricavarsi ancora una volta da dati clinici concreti (ad es., i valori pressori): si finirebbe altrimenti per sdoganare l’impiego della pratica contenitiva in chiave precauzionale e dunque, vista la normale prevedibilità di tali effetti, per ammetterla come «metodica abituale di trattamento della malattia psichiatrica» (p. 58). Nel caso in esame l’esonero da responsabilità per sequestro di persona non può essere riconosciuto neppure sul piano dell’elemento soggettivo, che i ricorrenti chiedevano di configurare in termini di colpa. Un errore sulla sussistenza degli estremi dello stato di necessità, rilevante ex art. 59 co. 4 c.p., è stato escluso dalla sentenza impugnata sulla base di due argomenti principali: in primo luogo, la mancata annotazione in cartella clinica, da parte di tutti i medici avvicendatisi nelle visite al paziente, di qualsiasi riferimento allo stato di contenzione; in secondo luogo, la circostanza per cui, sia dall’esame degli imputati che dagli altri atti difensivi, tra cui le impugnazioni, era emerso – fin dal lessico utilizzato – come all’interno del reparto la contenzione fosse considerata la prassi, «una sorta di protocollo tacito applicato in maniera indistinta» – venendo appunto descritta dagli stessi ricorrenti come “protocollo terapeutico/assistenziale” o “terapia meccanica”. Entrambi gli elementi sintomatici rivelano, anche a giudizio della Cassazione (pp. 65 ss.), la chiara consapevolezza dei sanitari di agire in una situazione di fatto priva dei connotati di eccezionale necessità che, anche nel contesto di un trattamento sanitario obbligatorio, sono richiesti per giustificare, ai sensi dell’art. 54, il ricorso alla contenzione. Non rileva, invece, la finalità perseguita dai medici: una volta considerato che la “incompatibilità ontologica con il dolo” vale soltanto per gli atti sanitari contrassegnati da una funzione terapeutica da valutarsi in base a criteri oggettivi, non può che ricordarsi come il delitto di cui all’art. 605 sia punito a titolo di dolo generico, a prescindere dalle intenzioni soggettive che animano l’agente. Merita infine attenzione la posizione adottata dalla sentenza in esame sull’estensione dell’addebito di responsabilità per sequestro di persona anche a carico degli infermieri, esclusa dal Tribunale in forza dell’art. 51 comma 3 e affermata dalla Corte d’Appello. La Cassazione (pp. 70 ss.) accoglie l’impostazione del giudice di secondo grado, fondata, come accennato, sulla valorizzazione degli obblighi gravanti sul personale infermieristico. Il modello della subordinazione gerarchica ai medici non risulta sostenibile alla luce della l. 251/2000 che, all’art. 1 co. 1, dopo aver sancito un principio di «autonomia professionale» per gli infermieri, richiama, per individuarne le funzioni, il codice deontologico di categoria: con particolare riferimento alla contenzione, viene così attribuita piena giuridicità ai doveri ivi prescritti di verifica delle condizioni, formali e sostanziali, che la legittimano (art. 30: «l’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia un evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali), nonché ai doveri di protezione del paziente e di segnalazione all’autorità competente in caso di «maltrattamenti o privazioni» (art. 33). Per la sussistenza del dolo, quantomeno eventuale, si afferma che, a fronte del diffuso impiego in reparto della contenzione fuori dalle relative condizioni di liceità, gli infermieri con il loro contegno omissivo «hanno accettato il rischio della inesistenza della stessa prescrizione medica e della conseguente illegittima privazione […] della libertà», così ponendosi al di fuori della sfera di operatività dell’art. 59 co. 4. La condanna degli infermieri – osserva la Cassazione, con un’interessante nota processuale – trova dunque fondamento in una diversa ricostruzione in diritto della vicenda, e non in una lettura difforme dei dati fattuali offerti dalle prove dichiarative, il che esclude che la mancata rinnovazione istruttoria contrasti con il principio sancito dalle Sezioni unite Dasgupta. Concludendo l’esame dei ricorsi, la Cassazione ritiene fondati i motivi relativi alla condanna ex art. 586 c.p. (pp. 78 ss.): nonostante il reato debba ormai ritenersi prescritto, viene annullata con rinvio – ai soli effetti civili – la sentenza impugnata, che si era erroneamente discostata dalle conclusioni raggiunte dal consulente tecnico del pubblico ministero circa la causa prossima del decesso (morte elettrica da cardiopatia aritmogena) e comunque aveva omesso di individuare una valida legge di copertura che permetta di ricondurre detta causa, a sua volta, alla condotta base dolosa (la contenzione). modificare.
1 Commento
La vicenda tra l’avv. Mario Piccolino e Michele Rossi ha origine nella seconda metà degli anni ’90, quando i fratelli Franco e Cristoforo Coraggio da Ventotene si rivolsero all’avv. Piccolino perché erano stati spogliati di una grotta scavata nel tufo in località Pozzillo, sull’isola. Era successo che Michele Rossi era venuto, non si sa come, in possesso di copia in forma esecutiva di una sentenza pronunciata a conclusione di un giudizio nel quale egli non era stato parte o procuratore di nessuna delle parti in causa. Con la compiacenza dell’allora dirigente ufficiale giudiziario presso la Pretura di Gaeta Giuseppe Aurola (poi arrestato e condannato per corruzione nel 2012, per altre vicende) aveva posto in esecuzione questa sentenza e aveva spogliato di questa grotta i fratelli Coraggio, che ne esercitavano il possesso uti dominus da oltre venti anni. Promossa l’azione di reintegra nell’interesse di Coraggio Cristoforo, l’allora Pretore di Gaeta, dr. Francesco Iacuaniello, aveva a rigettare il ricorso con una motivazione che gridava vendetta: “il pacifico possesso ultraventennale esercitato dal Coraggio deve cedere di fronte ai giusti titoli vantati dal resistente”. Una mostruosità giuridica che l’avv. Piccolino trovò insultante per la sua intelligenza e per la sua professionalità. L’avv. Piccolino non si perse d’animo e promosse un nuovo giudizio per la reintegra della grotta, ricorrendo a nome dell’altro fratello, Franco Coraggio. Il procedimento, di cui venne investito l’altro magistrato in sede a Gaeta, il dr. Beniamino Russo, ebbe un esito diametralmente opposto: il secondo giudice, sulla scorta dello stesso materiale probatorio dell’altro giudizio, ebbe ad accordare la tutela possessoria prima negata. Decisione, questa, poi ribadita in sede di reclamo e fino in Cassazione. Il provvedimento di reintegra venne messo in esecuzione dai Coraggio, con ulteriori opposizioni e strascichi giudiziari, perché, nel frattempo, il Rossi aveva alterato lo stato della grotta realizzandovi un bagno che aveva collegato con la sua sovrastante abitazione. La vicenda, però, ebbe anche un coté penalistico: l’avv. Piccolino denunciò con atto diretto all’Autorità Giudiziaria la condotta del magistrato, paventando che questa fosse meno che limpida, avendo sfacciatamente e contra ius favorito il Rossi. Ne nacque un procedimento penale a carico dell’avv. Piccolino e del ricorrente Cristoforo Coraggio per calunnia e diffamazione, processo che si celebrò a Perugia per competenza funzionale, trattandosi di vicenda che riguardava un magistrato del distretto di Corte di Appello di Roma. In questo processo, che vide la costituzione di parte civile del giudice Iacuaniello, dell’ufficiale giudiziario Aurola, del Rossi, sfilarono come testimoni numerosi avvocati del Foro di Gaeta: per anni la vicenda tenne banco sulla stampa locale e presso le chiacchiere cittadine e, ancor di più, presso i colleghi dell’avv. Piccolino, rinfocolandosi a ogni nuova udienza. Alla fine, il processo, in cui l’imputato fu magistralmente difeso dall’avv. Pasqualino Magliuzzi, si concluse con l’assoluzione con formula piena in ordine al reato di calunnia, quello che l’avv. Piccolino reputava infamante per il suo decoro professionale, mentre arrivò la condanna a una multa per la diffamazione semplice, perché l’avv. Piccolino, nella sua arcinota esuberanza, aveva propalato all’universo mondo i sui dubbi circa l’operato del magistrato: di quella condanna, a dirla tutta, andava quanto mai fiero, perché rappresentava la dimostrazione che lui non aveva abbassato la testa di fronte a un evidente sopruso, denunciando chi se ne era reso autore. Tanto era il suo orgoglio che, ancora oggi, nel suo studio, quello sulla porta del quale poi è stato ucciso, campeggia la locandina di LatinaOggi, debitamente incorniciata, che dava conto di quell’assoluzione. Tutta la vicenda, tra penale e civile, si è conclusa nel 2003, definitivamente. Tuttavia, nell’arco dei cinque/sei anni in cui la storia si dipanò, il Rossi e l’avv. Piccolino ebbero occasione di incontrarsi, e scontrarsi, decine di volte. Da un lato, c’era l’orgoglio, umano e professionale, di un avvocato che, nell’interesse della Giustizia e dei suoi assistiti, non aveva esitato un attimo a mettersi contro all’allora Pretore di Gaeta, cioè colui che era chiamato a decidere tutte le cause da lui patrocinate presso l’allora Pretura: ci volevano, per farlo, coraggio e grande dirittura morale. Dall’altro, c’era la rabbia mista a sconcerto di un Rossi che non si faceva capace di come qualcuno, con una pervicacia ai suoi occhi inusitata, osasse sbarragli il passo, difendendosi con tutte le sue forze e, anzi, passando al contrattacco, ribattendo colpo su colpo, senza deflettere mai. Il collega Michele Piccolino, che all’epoca svolgeva la pratica forense presso lo studio dell’avv. Mario Piccolino, è stato testimone di numerosi incontri che il suo dominus ebbe con i fratelli Coraggio i quali, dopo anni di battaglie legali, si chiedevano se valesse la pena insistere, stanchi di difendersi tanto in sede civile che penale: in quelle occasioni, l’avv. Piccolino non cedeva alle lusinghe della stanchezza, neanche quando un tumore ne fiaccò gravemente la salute. Lo stimolo della lotta, diceva, gli faceva bene. Quindi, si può immaginare la sua soddisfazione quando, anni dopo, ne uscì vincitore e lo scorno di chi, come il Rossi, invece, ne era rimasto sconfitto, nonostante non avesse lesinato impegno e denaro. Va detto che, per l’avv. Piccolino, questa era una vicenda conclusasi nel 2003. E quando se ne ritrovava a parlare – e di tanto in tanto succedeva - con qualcuno che gliene sollecitava il ricordo, Mario Piccolino non si sottraeva, parlandone diffusamente, come una vecchia gloria ormai lontana nel tempo. Ma quando ciò succedeva, gli strali dell’avvocato erano per il giudice e per l’ufficiale giudiziario, che, ai suoi occhi, avevano mancato ai loro doveri di pubblici ufficiali (cfr. il post del 22.09.2014 pubblicato dall’avv. Piccolino su Freevillage http://www.freevillage.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=2084:il-processo-di-perugia-a-margine-del-convegno-sulla-giustizia-di-fi-al-paone-di-formia&Itemid=120), non tanto per il Rossi che veniva appellato dall’avv. Piccolino il “camerata”, senza altro aggiungere. Come detto, per l’avv. Mario Piccolino quella del Rossi rappresentava una figura marginale in questa vicenda, una figura peraltro sbiadita dal tempo, di certo non l’avversario di tutta una vita. Tant’è che, quando se l’è ritrovato di fronte sull’uscio del suo studio, il pomeriggio del 29 maggio 2015, neanche lo ha riconosciuto. La vicenda tra l’avv. Mario Piccolino e Michele Rossi ha origine nella seconda metà degli anni ’90, quando i fratelli Franco e Cristoforo Coraggio da Ventotene si rivolsero all’avv. Piccolino perché erano stati spogliati di una grotta scavata nel tufo in località Pozzillo, sull’isola.
Era successo che Michele Rossi era venuto, non si sa come, in possesso di copia in forma esecutiva di una sentenza pronunciata a conclusione di un giudizio nel quale egli non era stato parte o procuratore di nessuna delle parti in causa. Con la compiacenza dell’allora dirigente ufficiale giudiziario presso la Pretura di Gaeta Giuseppe Aurola (poi arrestato e condannato per corruzione nel 2012, per altre vicende) aveva posto in esecuzione questa sentenza e aveva spogliato di questa grotta i fratelli Coraggio, che ne esercitavano il possesso uti dominus da oltre venti anni. Promossa l’azione di reintegra nell’interesse di Coraggio Cristoforo, l’allora Pretore di Gaeta, dr. Francesco Iacuaniello, aveva a rigettare il ricorso con una motivazione che gridava vendetta: “il pacifico possesso ultraventennale esercitato dal Coraggio deve cedere di fronte ai giusti titoli vantati dal resistente”. Una mostruosità giuridica che l’avv. Piccolino trovò insultante per la sua intelligenza e per la sua professionalità. L’avv. Piccolino non si perse d’animo e promosse un nuovo giudizio per la reintegra della grotta, ricorrendo a nome dell’altro fratello, Franco Coraggio. Il procedimento, di cui venne investito l’altro magistrato in sede a Gaeta, il dr. Beniamino Russo, ebbe un esito diametralmente opposto: il secondo giudice, sulla scorta dello stesso materiale probatorio dell’altro giudizio, ebbe ad accordare la tutela possessoria prima negata. Decisione, questa, poi ribadita in sede di reclamo e fino in Cassazione. Il provvedimento di reintegra venne messo in esecuzione dai Coraggio, con ulteriori opposizioni e strascichi giudiziari, perché, nel frattempo, il Rossi aveva alterato lo stato della grotta realizzandovi un bagno che aveva collegato con la sua sovrastante abitazione. La vicenda, però, ebbe anche un coté penalistico: l’avv. Piccolino denunciò con atto diretto all’Autorità Giudiziaria la condotta del magistrato, paventando che questa fosse meno che limpida, avendo sfacciatamente e contra ius favorito il Rossi. Ne nacque un procedimento penale a carico dell’avv. Piccolino e del ricorrente Cristoforo Coraggio per calunnia e diffamazione, processo che si celebrò a Perugia per competenza funzionale, trattandosi di vicenda che riguardava un magistrato del distretto di Corte di Appello di Roma. In questo processo, che vide la costituzione di parte civile del giudice Iacuaniello, dell’ufficiale giudiziario Aurola, del Rossi, sfilarono come testimoni numerosi avvocati del Foro di Gaeta: per anni la vicenda tenne banco sulla stampa locale e presso le chiacchiere cittadine e, ancor di più, presso i colleghi dell’avv. Piccolino, rinfocolandosi a ogni nuova udienza. Alla fine, il processo, in cui l’imputato fu magistralmente difeso dall’avv. Pasqualino Magliuzzi, si concluse con l’assoluzione con formula piena in ordine al reato di calunnia, quello che l’avv. Piccolino reputava infamante per il suo decoro professionale, mentre arrivò la condanna a una multa per la diffamazione semplice, perché l’avv. Piccolino, nella sua arcinota esuberanza, aveva propalato all’universo mondo i sui dubbi circa l’operato del magistrato: di quella condanna, a dirla tutta, andava quanto mai fiero, perché rappresentava la dimostrazione che lui non aveva abbassato la testa di fronte a un evidente sopruso, denunciando chi se ne era reso autore. Tanto era il suo orgoglio che, ancora oggi, nel suo studio, quello sulla porta del quale poi è stato ucciso, campeggia la locandina di LatinaOggi, debitamente incorniciata, che dava conto di quell’assoluzione. Tutta la vicenda, tra penale e civile, si è conclusa nel 2003, definitivamente. Tuttavia, nell’arco dei cinque/sei anni in cui la storia si dipanò, il Rossi e l’avv. Piccolino ebbero occasione di incontrarsi, e scontrarsi, decine di volte. Da un lato, c’era l’orgoglio, umano e professionale, di un avvocato che, nell’interesse della Giustizia e dei suoi assistiti, non aveva esitato un attimo a mettersi contro all’allora Pretore di Gaeta, cioè colui che era chiamato a decidere tutte le cause da lui patrocinate presso l’allora Pretura: ci volevano, per farlo, coraggio e grande dirittura morale. Dall’altro, c’era la rabbia mista a sconcerto di un Rossi che non si faceva capace di come qualcuno, con una pervicacia ai suoi occhi inusitata, osasse sbarragli il passo, difendendosi con tutte le sue forze e, anzi, passando al contrattacco, ribattendo colpo su colpo, senza deflettere mai. Il collega Michele Piccolino, che all’epoca svolgeva la pratica forense presso lo studio dell’avv. Mario Piccolino, è stato testimone di numerosi incontri che il suo dominus ebbe con i fratelli Coraggio i quali, dopo anni di battaglie legali, si chiedevano se valesse la pena insistere, stanchi di difendersi tanto in sede civile che penale: in quelle occasioni, l’avv. Piccolino non cedeva alle lusinghe della stanchezza, neanche quando un tumore ne fiaccò gravemente la salute. Lo stimolo della lotta, diceva, gli faceva bene. Quindi, si può immaginare la sua soddisfazione quando, anni dopo, ne uscì vincitore e lo scorno di chi, come il Rossi, invece, ne era rimasto sconfitto, nonostante non avesse lesinato impegno e denaro. Va detto che, per l’avv. Piccolino, questa era una vicenda conclusasi nel 2003. E quando se ne ritrovava a parlare – e di tanto in tanto succedeva - con qualcuno che gliene sollecitava il ricordo, Mario Piccolino non si sottraeva, parlandone diffusamente, come una vecchia gloria ormai lontana nel tempo. Ma quando ciò succedeva, gli strali dell’avvocato erano per il giudice e per l’ufficiale giudiziario, che, ai suoi occhi, avevano mancato ai loro doveri di pubblici ufficiali (cfr. il post del 22.09.2014 pubblicato dall’avv. Piccolino su Freevillage http://www.freevillage.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=2084:il-processo-di-perugia-a-margine-del-convegno-sulla-giustizia-di-fi-al-paone-di-formia&Itemid=120), non tanto per il Rossi che veniva appellato dall’avv. Piccolino il “camerata”, senza altro aggiungere. Come detto, per l’avv. Mario Piccolino quella del Rossi rappresentava una figura marginale in questa vicenda, una figura peraltro sbiadita dal tempo, di certo non l’avversario di tutta una vita. Tant’è che, quando se l’è ritrovato di fronte sull’uscio del suo studio, il pomeriggio del 29 maggio 2015, neanche lo ha riconosciuto. L'omicidio del piccolo GABRIEL«Mia figlia è innocente. Ci metto le mani sul fuoco. Ogni volta che vado in carcere a Roma, ogni volta che la sento, mi chiede di lui. Mi domanda se vado al cimitero, se mi preoccupo di fargli dire una messa. Una mamma che uccide il suo bambino non può avere tutto questo amore. Ne sono convinta». A parlare, alla presenza dell'avvocato Alberto Scerbo (che rappresenterà lei e il figlio come parti civili nel procedimento) a poche ore dalla decisione del giudice che ha stabilito l'inizio del processo per Donatella Di Bona e per Nicola Feroleto i genitori del piccolo Gabriel, accusati di omicidio volontario aggravato e per questo arrestati poco dopo il delitto è la mamma di Donatella, la signora Rocca. Tre figli - uno a San Donato con gli zii e una vita fatta di duro lavoro per tirare su la famiglia. Da un giorno all'altro è stata scaraventata in un inferno: non ha più il suo adorato nipotino, non ha più sua figlia che è in carcere né la sua casa in via Volla né la quotidianità di una vita difficile ma dignitosa. Ma, soprattutto, deve fare i conti con una verità amara: Gabriel non tornerà più.
«Non ci mancava nulla. Davvero. A volte non pranzavo neppure, un pezzo di pane e via: mi spostavo per fare le pulizie. Ma non faceva nulla - ha ribadito Rocca -. Mio nipote era la mia gioia. Stava con me, mangiavamo insieme. Anche in quel terribile giorno aveva mangiato la pasta e le polpette dal mio piatto». Poi guarda il figlio Luciano e aggiunge: «Giocava sempre con lo zio, per lui moriva: è stato davvero un brutto colpo. Mi manca, ci manca ogni giorno. Più il tempo passa, più sento la sua mancanza». «Donatella lo sogna spesso. È molto provata. E ha paura. Non parla. Forse è preoccupata per noi» aggiunge Rocca, che non alza mai i toni, neppure quando ricorda quel pomeriggio terribile". Quando con la mente torna al 27 aprile scorso, non riesce a trattenere le lacrime: riaffiorano i flashback di quella vita insieme, quegli abbracci, quelle risate squillanti e piene di vita. Poi ricostruisce il legame tra Donatella e Nicola, un rapporto difficile. «Non sapevo che Donatella fosse incinta. Quando aspettava Gabriel è rimasta a San Donato per nove mesi. Mi impedirono di andare, lei era completamente dipendente» ha spiegato. Poi ha aggiunto: «Donatella era molto innamorata di Nicola. E faceva ciò che lui diceva. Lui veniva a casa, la aspettava, poi uscivano a volte con Gabriel. Altre volte lo tenevo io. Mia figlia amava il suo bambino. Non avrebbe mai potuto fargli del male». Ma allora, perché quella confessione? Perché quelle versioni rese ai carabinieri e poi ritrattate? «Credo per paura, solo questo penso» ha aggiunto Rocca. Quell'immagine indelebile «Occhi chiusi, bocca aperta. Ho capito subito che qualcosa di brutto era accaduto racconta Io ho iniziato a strillare, ho chiesto aiuto. Non ho creduto neppure per un momento che fosse stato investito. Poi i medici, i lunghi tentativi di rianimarlo. Quando hanno messo il telo bianco, attorno al bambino, ho capito» ha continuato a raccontare nonna Rocca che si è sempre rimboccata le maniche e ha provveduto a gestire la famiglia per non far mancare loro nulla. Da quel terribile momento in poi, la comunità di Piedimonte così come il Comune l'hanno aiutata con beni di prima necessità dimostrando una solidarietà concreta, oltre che una vicinanza spirituale. A breve l'avvocato Alberto Scerbo presenterà istanza di dissequestro dell'abitazione in via Volla. Così Rocca e suo figlio Luciano potranno tornare a casa (ora vivono in affitto). «Non sarà più la stessa cosa, lo so. Ma almeno torniamo a casa».
«Mia figlia è innocente. Ci metto le mani sul fuoco. Ogni volta che vado in carcere a Roma, ogni volta che la sento, mi chiede di lui. Mi domanda se vado al cimitero, se mi preoccupo di fargli dire una messa. Una mamma che uccide il suo bambino non può avere tutto questo amore. Ne sono convinta». A parlare, alla presenza dell'avvocato Alberto Scerbo (che rappresenterà lei e il figlio come parti civili nel procedimento) a poche ore dalla decisione del giudice che ha stabilito l'inizio del processo per Donatella Di Bona e per Nicola Feroleto i genitori del piccolo Gabriel, accusati di omicidio volontario aggravato e per questo arrestati poco dopo il delitto è la mamma di Donatella, la signora Rocca. Tre figli - uno a San Donato con gli zii e una vita fatta di duro lavoro per tirare su la famiglia. Da un giorno all'altro è stata scaraventata in un inferno: non ha più il suo adorato nipotino, non ha più sua figlia che è in carcere né la sua casa in via Volla né la quotidianità di una vita difficile ma dignitosa. Ma, soprattutto, deve fare i conti con una verità amara: Gabriel non tornerà più.
«Non ci mancava nulla. Davvero. A volte non pranzavo neppure, un pezzo di pane e via: mi spostavo per fare le pulizie. Ma non faceva nulla - ha ribadito Rocca -. Mio nipote era la mia gioia. Stava con me, mangiavamo insieme. Anche in quel terribile giorno aveva mangiato la pasta e le polpette dal mio piatto». Poi guarda il figlio Luciano e aggiunge: «Giocava sempre con lo zio, per lui moriva: è stato davvero un brutto colpo. Mi manca, ci manca ogni giorno. Più il tempo passa, più sento la sua mancanza». «Donatella lo sogna spesso. È molto provata. E ha paura. Non parla. Forse è preoccupata per noi» aggiunge Rocca, che non alza mai i toni, neppure quando ricorda quel pomeriggio terribile". Quando con la mente torna al 27 aprile scorso, non riesce a trattenere le lacrime: riaffiorano i flashback di quella vita insieme, quegli abbracci, quelle risate squillanti e piene di vita. Poi ricostruisce il legame tra Donatella e Nicola, un rapporto difficile. «Non sapevo che Donatella fosse incinta. Quando aspettava Gabriel è rimasta a San Donato per nove mesi. Mi impedirono di andare, lei era completamente dipendente» ha spiegato. Poi ha aggiunto: «Donatella era molto innamorata di Nicola. E faceva ciò che lui diceva. Lui veniva a casa, la aspettava, poi uscivano a volte con Gabriel. Altre volte lo tenevo io. Mia figlia amava il suo bambino. Non avrebbe mai potuto fargli del male». Ma allora, perché quella confessione? Perché quelle versioni rese ai carabinieri e poi ritrattate? «Credo per paura, solo questo penso» ha aggiunto Rocca. Quell'immagine indelebile «Occhi chiusi, bocca aperta. Ho capito subito che qualcosa di brutto era accaduto racconta Io ho iniziato a strillare, ho chiesto aiuto. Non ho creduto neppure per un momento che fosse stato investito. Poi i medici, i lunghi tentativi di rianimarlo. Quando hanno messo il telo bianco, attorno al bambino, ho capito» ha continuato a raccontare nonna Rocca che si è sempre rimboccata le maniche e ha provveduto a gestire la famiglia per non far mancare loro nulla. Da quel terribile momento in poi, la comunità di Piedimonte così come il Comune l'hanno aiutata con beni di prima necessità dimostrando una solidarietà concreta, oltre che una vicinanza spirituale. A breve l'avvocato Alberto Scerbo presenterà istanza di dissequestro dell'abitazione in via Volla. Così Rocca e suo figlio Luciano potranno tornare a casa (ora vivono in affitto). «Non sarà più la stessa cosa, lo so. Ma almeno torniamo a casa». |
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