ALBERTO SCERBO
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L'omicidio del Collega Mario Piccolino

18/12/2018

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La vicenda tra l’avv. Mario Piccolino e Michele Rossi ha origine nella seconda metà degli anni ’90, quando i fratelli Franco e Cristoforo Coraggio da Ventotene si rivolsero all’avv. Piccolino perché erano stati spogliati di una grotta scavata nel tufo in località Pozzillo, sull’isola.
Era successo che Michele Rossi era venuto, non si sa come, in possesso di copia in forma esecutiva di una sentenza pronunciata a conclusione di un giudizio nel quale egli non era stato parte o procuratore di nessuna delle parti in causa. Con la compiacenza dell’allora dirigente ufficiale giudiziario presso la Pretura di Gaeta Giuseppe Aurola (poi arrestato e condannato per corruzione nel 2012, per altre vicende) aveva posto in esecuzione questa sentenza e aveva spogliato di questa grotta i fratelli Coraggio, che ne esercitavano il possesso uti dominus da oltre venti anni.
Promossa l’azione di reintegra nell’interesse di Coraggio Cristoforo, l’allora Pretore di Gaeta, dr. Francesco Iacuaniello, aveva a rigettare il ricorso con una motivazione che gridava vendetta: “il pacifico possesso ultraventennale esercitato dal Coraggio deve cedere di fronte ai giusti titoli vantati dal resistente”. Una mostruosità giuridica che l’avv. Piccolino trovò insultante per la sua intelligenza e per la sua professionalità.
L’avv. Piccolino non si perse d’animo e promosse un nuovo giudizio per la reintegra della grotta, ricorrendo a nome dell’altro fratello, Franco Coraggio. Il procedimento, di cui venne investito l’altro magistrato in sede a Gaeta, il dr. Beniamino Russo, ebbe un esito diametralmente opposto: il secondo giudice, sulla scorta dello stesso materiale probatorio dell’altro giudizio, ebbe ad accordare la tutela possessoria prima negata. Decisione, questa, poi ribadita in sede di reclamo e fino in Cassazione. Il provvedimento di reintegra venne messo in esecuzione dai Coraggio, con ulteriori opposizioni e strascichi giudiziari, perché, nel frattempo, il Rossi aveva alterato lo stato della grotta realizzandovi un bagno che aveva collegato con la sua sovrastante abitazione.
La vicenda, però, ebbe anche un coté penalistico: l’avv. Piccolino denunciò con atto diretto all’Autorità Giudiziaria la condotta del magistrato, paventando che questa fosse meno che limpida, avendo sfacciatamente e contra ius favorito il Rossi. Ne nacque un procedimento penale a carico dell’avv. Piccolino e del ricorrente Cristoforo Coraggio per calunnia e diffamazione, processo che si celebrò a Perugia per competenza funzionale, trattandosi di vicenda che riguardava un magistrato del distretto di Corte di Appello di Roma.
In questo processo, che vide la costituzione di parte civile del giudice Iacuaniello, dell’ufficiale giudiziario Aurola, del Rossi, sfilarono come testimoni numerosi avvocati del Foro di Gaeta: per anni la vicenda tenne banco sulla stampa locale e presso le chiacchiere cittadine e, ancor di più, presso i colleghi dell’avv. Piccolino, rinfocolandosi a ogni nuova udienza.
Alla fine, il processo, in cui l’imputato fu magistralmente difeso dall’avv. Pasqualino Magliuzzi, si concluse con l’assoluzione con formula piena in ordine al reato di calunnia, quello che l’avv. Piccolino reputava infamante per il suo decoro professionale, mentre arrivò la condanna a una multa per la diffamazione semplice, perché l’avv. Piccolino, nella sua arcinota esuberanza, aveva propalato all’universo mondo i sui dubbi circa l’operato del magistrato: di quella condanna, a dirla tutta, andava quanto mai fiero, perché rappresentava la dimostrazione che lui non aveva abbassato la testa di fronte a un evidente sopruso, denunciando chi se ne era reso autore. Tanto era il suo orgoglio che, ancora oggi, nel suo studio, quello sulla porta del quale poi è stato ucciso, campeggia la locandina di LatinaOggi, debitamente incorniciata, che dava conto di quell’assoluzione.
Tutta la vicenda, tra penale e civile, si è conclusa nel 2003, definitivamente. Tuttavia, nell’arco dei cinque/sei anni in cui la storia si dipanò, il Rossi e l’avv. Piccolino ebbero occasione di incontrarsi, e scontrarsi, decine di volte. Da un lato, c’era l’orgoglio, umano e professionale, di un avvocato che, nell’interesse della Giustizia e dei suoi assistiti, non aveva esitato un attimo a mettersi contro all’allora Pretore di Gaeta, cioè colui che era chiamato a decidere tutte le cause da lui patrocinate presso l’allora Pretura: ci volevano, per farlo, coraggio e grande dirittura morale. Dall’altro, c’era la rabbia mista a sconcerto di un Rossi che non si faceva capace di come qualcuno, con una pervicacia ai suoi occhi inusitata, osasse sbarragli il passo, difendendosi con tutte le sue forze e, anzi, passando al contrattacco, ribattendo colpo su colpo, senza deflettere mai.
Il collega Michele Piccolino, che all’epoca svolgeva la pratica forense presso lo studio dell’avv. Mario Piccolino, è stato testimone di numerosi incontri che il suo dominus ebbe con i fratelli Coraggio i quali, dopo anni di battaglie legali, si chiedevano se valesse la pena insistere, stanchi di difendersi tanto in sede civile che penale: in quelle occasioni, l’avv. Piccolino non cedeva alle lusinghe della stanchezza, neanche quando un tumore ne fiaccò gravemente la salute. Lo stimolo della lotta, diceva, gli faceva bene. Quindi, si può immaginare la sua soddisfazione quando, anni dopo, ne uscì vincitore e lo scorno di chi, come il Rossi, invece, ne era rimasto sconfitto, nonostante non avesse lesinato impegno e denaro.
Va detto che, per l’avv. Piccolino, questa era una vicenda conclusasi nel 2003. E quando se ne ritrovava a parlare – e di tanto in tanto succedeva - con qualcuno che gliene sollecitava il ricordo, Mario Piccolino non si sottraeva, parlandone diffusamente, come una vecchia gloria ormai lontana nel tempo.
Ma quando ciò succedeva, gli strali dell’avvocato erano per il giudice e per l’ufficiale giudiziario, che, ai suoi occhi, avevano mancato ai loro doveri di pubblici ufficiali (cfr. il post del 22.09.2014 pubblicato dall’avv. Piccolino su Freevillage http://www.freevillage.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=2084:il-processo-di-perugia-a-margine-del-convegno-sulla-giustizia-di-fi-al-paone-di-formia&Itemid=120), non tanto per il Rossi che veniva appellato dall’avv. Piccolino il “camerata”, senza altro aggiungere.
Come detto, per l’avv. Mario Piccolino quella del Rossi rappresentava una figura marginale in questa vicenda, una figura peraltro sbiadita dal tempo, di certo non l’avversario di tutta una vita. Tant’è che, quando se l’è ritrovato di fronte sull’uscio del suo studio, il pomeriggio del 29 maggio 2015, neanche lo ha riconosciuto. 

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La vicenda tra l’avv. Mario Piccolino e Michele Rossi ha origine nella seconda metà degli anni ’90, quando i fratelli Franco e Cristoforo Coraggio da Ventotene si rivolsero all’avv. Piccolino perché erano stati spogliati di una grotta scavata nel tufo in località Pozzillo, sull’isola.
Era successo che Michele Rossi era venuto, non si sa come, in possesso di copia in forma esecutiva di una sentenza pronunciata a conclusione di un giudizio nel quale egli non era stato parte o procuratore di nessuna delle parti in causa. Con la compiacenza dell’allora dirigente ufficiale giudiziario presso la Pretura di Gaeta Giuseppe Aurola (poi arrestato e condannato per corruzione nel 2012, per altre vicende) aveva posto in esecuzione questa sentenza e aveva spogliato di questa grotta i fratelli Coraggio, che ne esercitavano il possesso uti dominus da oltre venti anni.
Promossa l’azione di reintegra nell’interesse di Coraggio Cristoforo, l’allora Pretore di Gaeta, dr. Francesco Iacuaniello, aveva a rigettare il ricorso con una motivazione che gridava vendetta: “il pacifico possesso ultraventennale esercitato dal Coraggio deve cedere di fronte ai giusti titoli vantati dal resistente”. Una mostruosità giuridica che l’avv. Piccolino trovò insultante per la sua intelligenza e per la sua professionalità.
L’avv. Piccolino non si perse d’animo e promosse un nuovo giudizio per la reintegra della grotta, ricorrendo a nome dell’altro fratello, Franco Coraggio. Il procedimento, di cui venne investito l’altro magistrato in sede a Gaeta, il dr. Beniamino Russo, ebbe un esito diametralmente opposto: il secondo giudice, sulla scorta dello stesso materiale probatorio dell’altro giudizio, ebbe ad accordare la tutela possessoria prima negata. Decisione, questa, poi ribadita in sede di reclamo e fino in Cassazione. Il provvedimento di reintegra venne messo in esecuzione dai Coraggio, con ulteriori opposizioni e strascichi giudiziari, perché, nel frattempo, il Rossi aveva alterato lo stato della grotta realizzandovi un bagno che aveva collegato con la sua sovrastante abitazione.
La vicenda, però, ebbe anche un coté penalistico: l’avv. Piccolino denunciò con atto diretto all’Autorità Giudiziaria la condotta del magistrato, paventando che questa fosse meno che limpida, avendo sfacciatamente e contra ius favorito il Rossi. Ne nacque un procedimento penale a carico dell’avv. Piccolino e del ricorrente Cristoforo Coraggio per calunnia e diffamazione, processo che si celebrò a Perugia per competenza funzionale, trattandosi di vicenda che riguardava un magistrato del distretto di Corte di Appello di Roma.
In questo processo, che vide la costituzione di parte civile del giudice Iacuaniello, dell’ufficiale giudiziario Aurola, del Rossi, sfilarono come testimoni numerosi avvocati del Foro di Gaeta: per anni la vicenda tenne banco sulla stampa locale e presso le chiacchiere cittadine e, ancor di più, presso i colleghi dell’avv. Piccolino, rinfocolandosi a ogni nuova udienza.
Alla fine, il processo, in cui l’imputato fu magistralmente difeso dall’avv. Pasqualino Magliuzzi, si concluse con l’assoluzione con formula piena in ordine al reato di calunnia, quello che l’avv. Piccolino reputava infamante per il suo decoro professionale, mentre arrivò la condanna a una multa per la diffamazione semplice, perché l’avv. Piccolino, nella sua arcinota esuberanza, aveva propalato all’universo mondo i sui dubbi circa l’operato del magistrato: di quella condanna, a dirla tutta, andava quanto mai fiero, perché rappresentava la dimostrazione che lui non aveva abbassato la testa di fronte a un evidente sopruso, denunciando chi se ne era reso autore. Tanto era il suo orgoglio che, ancora oggi, nel suo studio, quello sulla porta del quale poi è stato ucciso, campeggia la locandina di LatinaOggi, debitamente incorniciata, che dava conto di quell’assoluzione.
Tutta la vicenda, tra penale e civile, si è conclusa nel 2003, definitivamente. Tuttavia, nell’arco dei cinque/sei anni in cui la storia si dipanò, il Rossi e l’avv. Piccolino ebbero occasione di incontrarsi, e scontrarsi, decine di volte. Da un lato, c’era l’orgoglio, umano e professionale, di un avvocato che, nell’interesse della Giustizia e dei suoi assistiti, non aveva esitato un attimo a mettersi contro all’allora Pretore di Gaeta, cioè colui che era chiamato a decidere tutte le cause da lui patrocinate presso l’allora Pretura: ci volevano, per farlo, coraggio e grande dirittura morale. Dall’altro, c’era la rabbia mista a sconcerto di un Rossi che non si faceva capace di come qualcuno, con una pervicacia ai suoi occhi inusitata, osasse sbarragli il passo, difendendosi con tutte le sue forze e, anzi, passando al contrattacco, ribattendo colpo su colpo, senza deflettere mai.
Il collega Michele Piccolino, che all’epoca svolgeva la pratica forense presso lo studio dell’avv. Mario Piccolino, è stato testimone di numerosi incontri che il suo dominus ebbe con i fratelli Coraggio i quali, dopo anni di battaglie legali, si chiedevano se valesse la pena insistere, stanchi di difendersi tanto in sede civile che penale: in quelle occasioni, l’avv. Piccolino non cedeva alle lusinghe della stanchezza, neanche quando un tumore ne fiaccò gravemente la salute. Lo stimolo della lotta, diceva, gli faceva bene. Quindi, si può immaginare la sua soddisfazione quando, anni dopo, ne uscì vincitore e lo scorno di chi, come il Rossi, invece, ne era rimasto sconfitto, nonostante non avesse lesinato impegno e denaro.
Va detto che, per l’avv. Piccolino, questa era una vicenda conclusasi nel 2003. E quando se ne ritrovava a parlare – e di tanto in tanto succedeva - con qualcuno che gliene sollecitava il ricordo, Mario Piccolino non si sottraeva, parlandone diffusamente, come una vecchia gloria ormai lontana nel tempo.
Ma quando ciò succedeva, gli strali dell’avvocato erano per il giudice e per l’ufficiale giudiziario, che, ai suoi occhi, avevano mancato ai loro doveri di pubblici ufficiali (cfr. il post del 22.09.2014 pubblicato dall’avv. Piccolino su Freevillage http://www.freevillage.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=2084:il-processo-di-perugia-a-margine-del-convegno-sulla-giustizia-di-fi-al-paone-di-formia&Itemid=120), non tanto per il Rossi che veniva appellato dall’avv. Piccolino il “camerata”, senza altro aggiungere.
Come detto, per l’avv. Mario Piccolino quella del Rossi rappresentava una figura marginale in questa vicenda, una figura peraltro sbiadita dal tempo, di certo non l’avversario di tutta una vita. Tant’è che, quando se l’è ritrovato di fronte sull’uscio del suo studio, il pomeriggio del 29 maggio 2015, neanche lo ha riconosciuto. 


L'omicidio del piccolo GABRIEL

«Mia figlia è innocente. Ci metto le mani sul fuoco. Ogni volta che vado in carcere a Roma, ogni volta che la sento, mi chiede di lui. Mi domanda se vado al cimitero, se mi preoccupo di fargli dire una messa. Una mamma che uccide il suo bambino non può avere tutto questo amore. Ne sono convinta». A parlare, alla presenza dell'avvocato Alberto Scerbo (che rappresenterà lei e il figlio come parti civili nel procedimento) a poche ore dalla decisione del giudice che ha stabilito l'inizio del processo per Donatella Di Bona e per Nicola Feroleto i genitori del piccolo Gabriel, accusati di omicidio volontario aggravato e per questo arrestati poco dopo il delitto è la mamma di Donatella, la signora Rocca. Tre figli - uno a San Donato con gli zii e una vita fatta di duro lavoro per tirare su la famiglia. Da un giorno all'altro è stata scaraventata in un inferno: non ha più il suo adorato nipotino, non ha più sua figlia che è in carcere né la sua casa in via Volla né la quotidianità di una vita difficile ma dignitosa. Ma, soprattutto, deve fare i conti con una verità amara: Gabriel non tornerà più.
«Non ci mancava nulla. Davvero. A volte non pranzavo neppure, un pezzo di pane e via: mi spostavo per fare le pulizie.
Ma non faceva nulla - ha ribadito Rocca -. Mio nipote era la mia gioia. Stava con me, mangiavamo insieme. Anche in quel terribile giorno aveva mangiato la pasta e le polpette dal mio piatto». Poi guarda il figlio Luciano e aggiunge: «Giocava sempre con lo zio, per lui moriva: è stato davvero un brutto colpo. Mi manca, ci manca ogni giorno. Più il tempo passa, più sento la sua mancanza». «Donatella lo sogna spesso. È molto provata. E ha paura. Non parla. Forse è preoccupata per noi» aggiunge Rocca, che non alza mai i toni, neppure quando ricorda quel pomeriggio terribile".

Quando con la mente torna al 27 aprile scorso, non riesce a trattenere le lacrime: riaffiorano i flashback di quella vita insieme, quegli abbracci, quelle risate squillanti e piene di vita. Poi ricostruisce il legame tra Donatella e Nicola, un rapporto difficile. «Non sapevo che Donatella fosse incinta. Quando aspettava Gabriel è rimasta a San Donato per nove mesi. Mi impedirono di andare, lei era completamente dipendente» ha spiegato. Poi ha aggiunto: «Donatella era molto innamorata di Nicola. E faceva ciò che lui diceva. Lui veniva a casa, la aspettava, poi uscivano a volte con Gabriel. Altre volte lo tenevo io. Mia figlia amava il suo bambino. Non avrebbe mai potuto fargli del male». Ma allora, perché quella confessione? Perché quelle versioni rese ai carabinieri e poi ritrattate? «Credo per paura, solo questo penso» ha aggiunto Rocca.
Quell'immagine indelebile
«Occhi chiusi, bocca aperta. Ho capito subito che qualcosa di brutto era accaduto racconta Io ho iniziato a strillare, ho chiesto aiuto. Non ho creduto neppure per un momento che fosse stato investito. Poi i medici, i lunghi tentativi di rianimarlo.
Quando hanno messo il telo bianco, attorno al bambino, ho capito» ha continuato a raccontare nonna Rocca che si è sempre rimboccata le maniche e ha provveduto a gestire la famiglia per non far mancare loro nulla. Da quel terribile momento in poi, la comunità di Piedimonte così come il Comune l'hanno aiutata con beni di prima necessità dimostrando una solidarietà concreta, oltre che una vicinanza spirituale.
 A breve l'avvocato Alberto Scerbo presenterà istanza di dissequestro dell'abitazione in via Volla. 
Così Rocca e suo figlio Luciano potranno tornare a casa (ora vivono in affitto). «Non sarà più la stessa cosa, lo so. Ma almeno torniamo a casa».
«Mia figlia è innocente. Ci metto le mani sul fuoco. Ogni volta che vado in carcere a Roma, ogni volta che la sento, mi chiede di lui. Mi domanda se vado al cimitero, se mi preoccupo di fargli dire una messa. Una mamma che uccide il suo bambino non può avere tutto questo amore. Ne sono convinta». A parlare, alla presenza dell'avvocato Alberto Scerbo (che rappresenterà lei e il figlio come parti civili nel procedimento) a poche ore dalla decisione del giudice che ha stabilito l'inizio del processo per Donatella Di Bona e per Nicola Feroleto i genitori del piccolo Gabriel, accusati di omicidio volontario aggravato e per questo arrestati poco dopo il delitto è la mamma di Donatella, la signora Rocca. Tre figli - uno a San Donato con gli zii e una vita fatta di duro lavoro per tirare su la famiglia. Da un giorno all'altro è stata scaraventata in un inferno: non ha più il suo adorato nipotino, non ha più sua figlia che è in carcere né la sua casa in via Volla né la quotidianità di una vita difficile ma dignitosa. Ma, soprattutto, deve fare i conti con una verità amara: Gabriel non tornerà più.
«Non ci mancava nulla. Davvero. A volte non pranzavo neppure, un pezzo di pane e via: mi spostavo per fare le pulizie.
Ma non faceva nulla - ha ribadito Rocca -. Mio nipote era la mia gioia. Stava con me, mangiavamo insieme. Anche in quel terribile giorno aveva mangiato la pasta e le polpette dal mio piatto». Poi guarda il figlio Luciano e aggiunge: «Giocava sempre con lo zio, per lui moriva: è stato davvero un brutto colpo. Mi manca, ci manca ogni giorno. Più il tempo passa, più sento la sua mancanza». «Donatella lo sogna spesso. È molto provata. E ha paura. Non parla. Forse è preoccupata per noi» aggiunge Rocca, che non alza mai i toni, neppure quando ricorda quel pomeriggio terribile".

Quando con la mente torna al 27 aprile scorso, non riesce a trattenere le lacrime: riaffiorano i flashback di quella vita insieme, quegli abbracci, quelle risate squillanti e piene di vita. Poi ricostruisce il legame tra Donatella e Nicola, un rapporto difficile. «Non sapevo che Donatella fosse incinta. Quando aspettava Gabriel è rimasta a San Donato per nove mesi. Mi impedirono di andare, lei era completamente dipendente» ha spiegato. Poi ha aggiunto: «Donatella era molto innamorata di Nicola. E faceva ciò che lui diceva. Lui veniva a casa, la aspettava, poi uscivano a volte con Gabriel. Altre volte lo tenevo io. Mia figlia amava il suo bambino. Non avrebbe mai potuto fargli del male». Ma allora, perché quella confessione? Perché quelle versioni rese ai carabinieri e poi ritrattate? «Credo per paura, solo questo penso» ha aggiunto Rocca.
Quell'immagine indelebile
«Occhi chiusi, bocca aperta. Ho capito subito che qualcosa di brutto era accaduto racconta Io ho iniziato a strillare, ho chiesto aiuto. Non ho creduto neppure per un momento che fosse stato investito. Poi i medici, i lunghi tentativi di rianimarlo.
Quando hanno messo il telo bianco, attorno al bambino, ho capito» ha continuato a raccontare nonna Rocca che si è sempre rimboccata le maniche e ha provveduto a gestire la famiglia per non far mancare loro nulla. Da quel terribile momento in poi, la comunità di Piedimonte così come il Comune l'hanno aiutata con beni di prima necessità dimostrando una solidarietà concreta, oltre che una vicinanza spirituale.
 A breve l'avvocato Alberto Scerbo presenterà istanza di dissequestro dell'abitazione in via Volla. 
Così Rocca e suo figlio Luciano potranno tornare a casa (ora vivono in affitto). «Non sarà più la stessa cosa, lo so. Ma almeno torniamo a casa».
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    avv. Alberto
    Scerbo
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    L'idea dell' Blog L'Aula d'udienza nasce dal senso di "inadeguatezza" che ho provato durante il processo per l'omicidio del Collega Mario Piccolino, tragicamente scomparso per mano assassina.
    La stessa inadeguatezza, però, che mi ha consentito di affermare, con immutato vigore, non solo la funzione di garanzia svolta ma, soprattutto, l'imprescindibilità di una difesa tecnica ed altamente specializzata.
    Ma non sarà l'unica vicenda che racconterò.


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